Giovane, eterogeneo, un cavallo pazzo d’inventiva, ben indicato per i climi calienti di questi giorni, il jazz targato Pippi Dimonte ha necessitato di ripetuti ascolti prima che il sottoscritto decidesse di tagliare il nastro della recensione, confermando la regola che non bisogna mai essere affrettati quando si tratta di emanare giudizi sulla musica altrui. Insomma, ma chi ci crediamo di essere: tutto necessita del giusto tempo, di più e più ascolti, e anche “Hieronymus”, al pari di un buon rosso sorseggiato pacatamente, ha emesso i suoi soffici aromi modern molto lentamente, superando un primo impatto in cui a predominare era l’idea della melodia abusata e già sentita ma che, inversamente, messa ai raggi X ha sciorinato una perizia per i piccoli dettagli, nonché la capacità di librarsi con scioltezza fra i tanti lidi su cui attracca la musica improvvisata oggigiorno. Già, perchè il giovane Pippi Dimonte, alla sua prima prova in veste di leader di un 5tetto dopo “Mourning Session”, album registrato in compagnia dell’Overcrowded Duo, in cui si evinceva una chiara estrazione funky and go, rilascia alla bisogna una visione caleidoscopica del jazz sound, dimostrando di saper proferire una scrittura aperta a 360°, che seppur debitrice di climi melodici, sa bilanciarsi con fare sbarazzino tra differenti forme, colori e tonalità. Ad affiancare il suo basso ci sono Marco Vecchio (sax alto e soprano), Simone Salvini (tromba), Alessandro De Lorenzi (chitarra), Nicola Benetti (batteria), pronti a shakerare i già citati diktat funky (l’opening Mimì, i ritorni acid del basso in Sigfrid) con eteree aperture di scuola Ecm (la title track aperta da un’intricato solo di basso dove i più attenti non potranno che ricordare la mano di Eberhard Weber); controtempi dall’innesto cinematico, celanti sbiadite reminiscenze zorniane (Neukolln) con alti volumi di matrice hard bop (Pastis, l’aria para tropical in Ebony Dance), seguite da partiture che, per un verso, viaggiano in malinconici lidi dal carattere retrò, stile locale notturno anni ’50 (Macramè), per l’altro, invadono il terreno di un modern jazz che non sfigurerebbe dalle parti della nordica Act. Personalmente lancio un encomio di tutto rispetto al trombettista Simone Salvini che in più di un frangente si concede in momenti di vibrante emozione solista.
Buon ascolto possibilmente sotto l’ombrellone.